L’hosting provider non deve di per sé rispondere dei contenuti caricati dai propri utenti – salvo che a seguito di segnalazioni circostanziate – né deve essere chiamato ad essere un soggetto attivo da qualsivoglia detentore dei diritti, che non può pretendere che la piattaforma filtri preventivamente i contenuti, ergendosi a giudicare il distillato delle libertà dei cittadini della Rete.
Con queste motivazioni la Corte d’appello di Milano, con la sentenza n. 29 del 7 gennaio 2015, ha ribaltato la decisione emessa nel 2011 dal Tribunale di Milano: RTI non aveva diritto di pretendere che Yahoo agisse per individuare e prevenire le violazioni commesse dagli utenti ai danni della controllata Mediaset e dei suoi programmi.
Il caso si era aperto nel mese di novembre del 2009: RTI, senza aver imboccato l’ordinaria procedura di segnalazione approfittando degli strumenti messi a disposizione dal portale di video sharing, lamentava la presenza sulla piattaforma di Sunnyvale di certi spezzoni di video, quali Amici o Striscia La Notizia.
Il gruppo esemplificava le proprie rimostranze con una serie di URL di riferimento, che Yahoo aveva provveduto a rimuovere, affidandosi alla buona fede di Mediaset e senza attendere l’ordine dell’autorità giudiziaria, come invece la legge italiana prevede e come confermano altre decisioni in materia.
Il Tribunale di Milano ha ritenuto Yahoo colpevole per aver temporeggiato e, dunque, responsabile della violazioni, in quanto “hosting provider “attivo”: questa figura, che secondo il Tribunale si è configurata nel corso degli anni con l’affermarsi delle piattaforme dedicate alla condivisione dei contenuti, non sarebbe protetta dalle previsioni relative alla non responsabilità degli intermediari contenute nella direttiva europea sul commercio elettronico (2000/31/CE), recepite in Italia con il decreto legislativo 70/2003 e in particolare con l’articolo 16. “Attivo”, secondo il Tribunale di Milano, sarebbe stato il fornitore di servizi che prevedesse uno strumento di segnalazione per gli abusi, che denoterebbe una assunzione di responsabilità rispetto al controllo dei contenuti e non una mano tesa nei confronti dei detentori dei diritti, e che in qualche modo si investisse di un ruolo editoriale organizzando i propri contenuti per metterli a disposizione degli utenti e trarne maggiori vantaggi in termini economici.
La della Corte di Appello di Milano ha ribaltato la decisione di primo grado ed ha ripreso le conclusioni in materia assunte dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nei casi SABAM-Scarlet, SABAM-Netlog e Telekebel, riconducendo la questione nell’alveo del quadro normativo europeo e italiano, statuendo che l’intermediario non deve assumersi la responsabilità di selezionare autonomamente e rimuovere contenuti caricati dagli utenti a seguito di una generica segnalazione come quelle di Mediaset; al contrario si esporrebbe al rischio di ritrovarsi responsabile della violazione del fondamentale diritto del cittadino ad esprimersi.
Lo stesso discorso vale per la prevenzione delle violazioni: Mediaset non può pretendere che si appronti un sistema di filtri che agiscano preventivamente. I filtri, spiega la Corte d’Appello, oltre ad essere verosimilmente aggirabili e non efficaci al cento per cento nel porre fine alle violazioni, rischiano di esporre l’intermediario al rischio di ledere il diritto alla privacy dell’individuo, implicando “un’analisi sistematica dei contenuti, nonché la raccolta e l’identificazione degli indirizzi IP degli utenti all’origine dell’invio dei contenuti illeciti” e rischiano di operare su falsi positivi che potrebbero “produrre il risultato di bloccare comunicazioni aventi un contenuto lecito”. Non può esistere un obbligo di sorveglianza in capo agli intermediari, spiega la Corte di Appello, e per quanto importante sia tutelare la proprietà intellettuale, è necessario che questa tutela si contemperi con gli altri diritti in gioco, come il diritto di espressione degli utenti.